Zec - Rembrandt
e la «stampa dei cento fiorini»

Roberto Budassi, in "Safet Zec, Con-divisioni", published by l'Abbazia di Rosazzo, 2001.

 I. Alcune considerazioni in merito a un capolavoro...


Anni or sono, mentre rileggevo alcuni passi della biografia di “Rembrante del Reno” scritta nel 1686 dal fiorentino Filippo Baldinucci 1 , riflettevo sulla «fortuna» critica riservata dalla moderna storiografia artistica all'opera incisa di Rembrandt e su come alcuni dei suoi capolavori grafici fossero di diritto entrati a far parte del ristretto novero di opere immortali della storia dell'arte. Fra queste, in una posizione di assoluto prestigio, consideravo l'incisione del Gesù che guarisce i malati cui i contemporanei attribuirono la singolare quanto efficace definizione di Stampa dei cento fiorini 2 .
Chi ama l'incisione e ne studia l'intrinseca bellezza non può fare a meno di confrontarsi con Rembrandt e con la versatilità del suo linguaggio grafico. Al maestro olandese spetta il merito di aver tradotto in immagini i drammi, le aspirazioni, le speranze, le passioni e le miserie umane rappresentandole con quella profondità di spinto e quella poesia che sono proprie solo dei maggiori interpreti dell'arte. Vi sono incisioni del suo vasto e prolifico repertorio, che testimoniano il valore di un ideale estetico che si è fatto universale e metastorico, capace cioè di trascendere i limiti imposti dal tempo e dalle convenzioni comuni, del gusto e delle mode, per elevarsi a modello di compiuta perfezione espressiva, formale e tecnica. Non a caso sacrificò parte considerevole della sua lunga e travagliata esistenza proprio alla ricerca e al conseguimento di tale scopo, dedicando alla grafica la stessa attenzione, lo stesso impegno, la stessa passione e serietà morale che poneva nell'esecuzione dei suoi ammirati capolavori pittorici. Anche in questo Rembrandt è stato un precursore, il primo, vero, caso di peintre-graveur della storia dell'arte tanto che la comprensione del suo linguaggio grafico rappresenta un passaggio obbligato, il punto di arrivo, il vertice oltre il quale non esiste esempio più compiuto su cui poter affinare le proprie conoscenze ed ampliare la sensibilità in questo specifico settore dell'arte moderna. E di questo bisogna tenere conto ogniqualvolta ci avviciniamo a rileggerne i capolavori, per comprenderne e interpretarne il significato profondo ed è ciò che Safet Zec, artista fra i più dotati, raffinati e versatili del nostro tempo, ha saputo fare nel proporre una rivisitazione della Stampa dei cento fiorini dedicando a quest'opera immortale un importante contributo grafico che ci consente di rileggerne, sotto una diversa luce — la luce, appunto, dell'artista - i contenuti formali e poetici.


Dicevamo in apertura che la Stampa dei cento fiorini, è uno dei capolavori assoluti dell'arte grafica di tutti i tempi ed è bene aggiungere che è forse l'opera più complessa e significativa dell'intero corpus grafico Rembrandtiano. La bellezza e il fascino che ancora oggi questa celeberrima incisione emana, derivano da un insieme di contenuti estetici, valori formali e risoluzioni tecniche che non hanno mutato nel tempo il loro significato e il loro impatto emotivo; contenuti e valori su cui vale la pena di ritornare, brevemente, in queste pagine. L'opera fu incisa da Rembrandt con tutta probabilità tra il 1642, anno segnato dalla morte dell'amata moglie Saskia van Uylenburgh, e il 1649 quando, nel pieno della maturità creativa, il maestro olandese dette inizio alla stagione più intensa della sua ricerca formale e linguistica. In questo periodo Rembrandt si allontana sempre più dalle esigenze di convenienza e dal gusto per la finitezza propri della società borghese del tempo, orientandosi decisamente ad esprimere e cogliere gli aspetti più intimamente spirituali delle scene e dei personaggi che rappresentava; a conferma di un distacco dalla frivolezza della vita mondana e dai costumi dell'epoca ormai consumato nel rigore di una sopraggiunta maturità artistica ed umana. La disamina delle varie componenti che caratterizzano i contenuti dell'opera è assai complessa e si presta ad una lettura a più livelli, il che giustifica la cripticità e il mistero che tuttora avvolge questo capolavoro. Infatti, pur essendo un'opera che ha conosciuto una vasta pubblicistica, mantiene un suo riserbo naturale, una sua dignitosa alterigia che non consente di carpire, oltre un certo limite, il segreto della sua bellezza e, come accade alla maggior parte dei capolavori, si finisce per non conoscerla mai abbastanza bene.

Ad iniziare da un'iconografia che non trova precedenti e riscontri nella tradizione figurativa europea e che si spiega con la volontà del maestro di inventare un testo figurativo che rispondesse alla necessità di rappresentare, contemporaneamente, diversi episodi della vita di Cristo riassumendoli in un'unica immagine, come a voler render meglio esplicita e comprensibile l'intera dottrina evangelica.

Rileggendo gli Atti di San Matteo, al capitolo 19, troviamo un possibile collegamento fra l'immagine e la fonte che ne ha ispirato la rappresentazione cosi come è testimoniato nei passi 1-2; 13-17; 23- 25 del testo: «Gesù...si parti dalla Galilea e andò nel territorio della Giudea, oltre il Giordano. Molta gente lo seguiva ed egli guariva i loro ammalati (1-2)... Allora gli furono presentati dei fanciulli affinché imponesse loro le mani e pregasse: ma i discepoli sgridavano questa gente. Gesù disse loro: “Lasciate stare i fanciulli e non impedite loro di venire a me, poiché proprio di loro è il regno dei cieli” (13 - 14 - 15) ... allora gli si accostò uno dicendogli: “Maestro buono, cosa devo fare di buono per avere la vita eterna?”. Gesù gli osserva: “Perché mi interroghi su ciò che è buono? Solo Iddio è buono. Se vuoi entrare nella vita eterna, osserva i comandamenti”.(16 - 1 7) ... Gesù continuò: “Se vuoi essere perfetto, và, vendi ciò che hai e donalo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi”(21) ... E Gesù disse ai suoi discepoli “Vi dico in verità che difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli. E di bel nuovo vi dico che è più facile per un cammello passare per la cruna di un ago, che non per un ricco entrare nel regno dei cieli”. ... Udendo queste cose i discepoli si sbigottirono... (23 - 24 - 25)». La correlazione fra il testo sacro e l'immagine è abbastanza evidente. Al centro della composizione campeggia solenne la figura del Cristo nell'atto di benedire un fanciullo in braccio alla madre; attorno si accalca la folla dei fedeli e degli ammalati che attendono il miracolo di una guarigione. Il giovane ricco è in procinto di rivolgergli la domanda su come ottenere la vita eterna e già sullo sfondo appare il cammello della parabola. L'iconografia fa esplicito riferimento alla condanna, da parte della chiesa protestante, del culto anabattista ed è, al contempo, un monito contro l'opulenza e b sfarzo della borghesia e della società del tempo e sulla necessità di raggiungere la salvezza solo grazie alla fede. Quella che Rembrandt rappresenta è una umanità derelitta, sbandata e bisognosa di conforto e di verità; di quella Grazia divina, insomma, che muta l'essenza stessa dell'essere, facendo di un naufrago un redento che ritrova la via della salvezza e della speranza dopo il travaglio di un'esistenza vissuta nel peccato.
L'insieme fu ripreso più volte nell'arco dei sette anni, quasi che la genesi dell'opera contemplasse il sacrificio e il tormento, come il dubbio lacerante che fa vacillare ogni ragione precostituita; ma il risultato finale è senza dubbio pienamente riuscito.

 

L'impianto compositivo è assai prossimo ad esprimere la concertata coralità d'insieme e la solenne monumentalità presente nel capolavoro pittorico “La ronda di notte” realizzato nel 1642, a cui quest'incisione sembra rapportarsi anche per l'articolata distribuzione delle figure su di uno spazio dominato dalla penombra e dai contrasti di una luce che assume una profondità tragica, ad un passo dalla visionarietà ascetica e spirituale.

E' una luce che scava un solco profondo nella duttile e spoglia materia dei senti-menti umani e rivela l'essenza debole dell'uomo e del suo animo, sempre alla ricerca di una verità che si fa misteriosa quanto nascosta, perché profondamente vissuta nella scarna realtà quotidiana. E' una luce che brucia i contorni della forma, potentemente rilevando le figure dal buio, come a voler dimostrare che la sua essenza è divina e non fisica; cosi divina da poter avvolgere in un unico abbraccio tutte le umane creature. Per ottenere gli effetti di contrasto fra bianco e nero e i vari passaggi dall'ombra alla luce, Rembrandt utilizza tutta la varietà e versatilità del suo “segno”, che si intensifica nella profondità del solco scavato dall'acido e dal bulino, che si ispessisce nella ramificazione degli intrecci, che si esalta nella delicatezza delle vellutate barbe alla puntasecca e si allarga nelle trame dei grigi che sfumano fino a distendersi nelle campiture più luminose dei bianchi. In questo, l'opera rappresenta uno dei primi esempi nella storia dell'incisione dell'utilizzo di tecniche associate. Rembrandt, infatti, combina assieme l'acquaforte, la puntasecca e il bulino, sovrapponendole e sperimentandone l'efficacia dei risultati in varie prove preliminari prima di giungere allo stato definitivo, a con- ferma di una raggiunta padronanza operativa e di una congeniale predisposizione del maestro olandese per il mezzo calcografico.
Già al tempo di Rembrandt l'incisione godette di una notevole consenso da parte del pubblico e fra le opere incise dal maestro olandese solo poche conobbero un eguale successo. Lo stesso Rembrandt, del resto, dovette giudicarla una delle sue grafiche più riuscite e nonostante in quegl'anni seguisse distrattamente il diminuire delle commissioni per i dipinti — fatto che segnala la parabola discendente della sua fama presso i contemporanei -- realizzò personalmente la tiratura di diverse decine di esemplari dei primi stati (il primissimo stato è arrivato a noi in soli otto esemplari) proprio per soddisfare tali pressanti richieste. Rembrandt, che in fatto di stampa, poi, era assai esigente, utilizzò per queste “prove in flore” la carta giapponese; la sola che reputasse idonea ad esprimere quella proverbiale lucentezza di contrasti e vellutati chiaroscuri che tanto, ancora oggi, ammiriamo negli esemplari meglio conservati. Purtroppo le infinite ristampe della matrice, che allievi e mercanti di poco scrupolo eseguirono nei decenni successivi alla morte del maestro, con l'intento di trame profitto, hanno offuscato la memoria delle impressioni originali1 che sono attualmente visibili solo presso j gabinetti di stampe dei maggiori musei europei e nord americani, cosa che, comunque, non ha scoraggiato l'interesse da parte della critica e della recente storiografia artistica per questo capolavoro eccelso della grafica di lutti i tempi. Un capolavoro che in questa veste ha rappresentato un modello di perfezione grafica e formale tale che ancora oggi esercita il suo influsso su intere generazioni di artisti e incisori.

II. . . .e altre precisazioni sulla legittimità di una replica.


C'è una lunga e consolidata tradizione che testimonia il complesso rapporto che si instaura fra i capolavori del passato e le copie che di questi fanno gli artisti delle generazioni successive ed alcuni esempi offrono l'abbrivio per giustificare la legittimità di un'operazione culturale delicata quanto sottile. I greci replicarono le opere di Fidia, Prassitele, Lisippo e Apelle, ad uso dei romani. I romani a loro volta tradussero i greci. I bizantini replicarono se stessi. L'intagliatore d'Acquisgrana si ingegnava a rielaborare i rilievi tardo imperiali per dar lustro e dignità alla Cappella Palatina. Cosi fecero i maestri comacini e transalpini ne1 voler trasmettere l'eleganza degli decori classici al candore spoglio delle rinate cattedrali romaniche. Se è vero che ogni opera d'arte vive nella coscienza di ognuno di noi è altrettanto vero che la trasmissione dei suoi contenuti è stata spesso affidata a copie o a riscritture più o meno riuscite. Così Michelangelo si esercitava all'arte del disegno rileggendo le opere di Giotto e Masaccio e si divertiva a schernire i conternporanei eseguendo copie perfette dagli antichi; Raffaello non era da meno e si esercitò molto nel disegno come riscrittura delle opere del passato e del suo presente per ritrovare, attraverso queste, quell'ideale ispirazione che alimentasse il suo genio per l'arte.

Così fecero i Carracci nella loro Accademia; cosi occorse al Bernini, a Rubens, Velazques, Canova, solo per citarne alcuni, fino a giungere, in questo elenco tracciato per sommi capi, a Matisse e Picasso che si ritrovarono, il primo, da giovane, a fare copie al Louvre il secondo, da anziano, a rileggere, nel silenzio della solitudine di un tramonto ormai prossimo, l'opera dei grandi predecessori, come ultimo, impossibile, traguardo di una necessaria ricapitolazione. Che dire poi delle incisioni di traduzione, che non sono copie ma che interpretarono, ugualmente, dal XVI al XIX secolo, in gran numero, con maggiore o minore fedeltà all'originale, le opere figurative del passato al solo scopo di divulgarne i contenuti fra i contemporanei; incisioni che svolsero una loro precisa e riconosciuta funzione formativa non meno che critica, in un'epoca in cui la riproduzione fotomeccanica dell'opera d'arte era inimmaginabile ed ancora lontana dall'essere una realtà. L'elenco potrebbe proseguire all'infinito, con esempi che nella loro sostanza, specificità e varietà risulterebbero tutti a loro modo significativi ma che, non essendo questa né la sede né l'occasione giusta per tentare una ben che minima ricapitolazione del fenomeno, non ci peritiamo di approfondire. Valga altresì il fatto che dobbiamo riconoscere, in partenza, alla copia o alla replica, alla trascrizione o alla traduzione che sia, una funzione necessaria quanto congeniale al successivo sviluppo dell'atto creativo, autonomo e originale, come a voler riconoscere, in sostanza, che dal passato c'è sempre qualcosa da imparare e che ogni rilettura, riscrittura, traduzione, interpretazione - cd ognuna di queste funzioni merita una specifica distinzione di significato e contenuto — non è mai stata, non è e non sarà mai, un'operazione semplice, scontata o fine a se stessa nè, tantomeno, illegittima e inappropriata, quando esistono motivazioni profonde che ne giustificano il senso.

Motivazioni che sicuramente non sono venute meno ad un artista dotato e sensibile come Safet Zec quando ha deciso di dedicare a Rernbrandt e alla sua Stampa dei cento fiorini una serie di studi approfonditi ed alcune repliche del testo originale rivissute nell'atmosfera calda del suo segno grafico. L'omaggio si configura come un doveroso riconoscimento al genio creativo del maestro olandese; genio che ha segnato il sorgere e il successivo sviluppo di una vocazione artistica precoce quanto dirompente che ha portato Zec ad essere l'artista che tutti noi conosciamo e stimiamo; un omaggio che va inteso come contributo insostituibile alla conoscenza del capolavoro Rembrandtiano, che cade nel momento favorevole di una raggiunta maturità espressiva da parte dell'artista bosniaco, quando cioè si è fatta impellente la necessità di ricapitolare e chiarire, tramite un dialogo serrato con ciò che è stato, la sostanza della propria arte e del proprio linguaggio visivo.
La serie, dal titolo Grazie Rembrandt, è composta da due grandi fogli incisi con le tecniche combinate dell'acquaforte, cera molle e puntasecca, e da una sequenza di studi preliminari - particolari anatomici e dettagli compositivi - che sostanziano il valore di un'indagine conoscitiva condotta a tutto campo.
Safet Zec ha dedicato una parte considerevole delle sue energie creative a perlustrare i meandri espressivi del linguaggio grafico e pittorico, e nessuno altro meglio di lui sa quali risultati visivi, quale varietà e quale intensità poetica, di segno e chiaroscuro, si possono ottenere con il sapiente utilizzo delle tecniche calcografiche e se c'è, oggi, un incisore, che può permettersi di dialogare a distanza, per virtuosismo e maestria, con Rembrandt, scendendo sul terreno della sperimentazione e del confronto questi è, senza ombra di dubbio, l'artista bosniaco. Per chi conosce la qualità del suo incidere e la profondità di sentimento con cui esprime il suo universo interiore non può non rilevare - con le dovute differenze di stile e personalità; è ovvio ! - le affinità con il grande artista olandese del ‘600. Chi avesse qualche dubbio o perplessità in proposito, rivela attentamente i balconi fioriti, gli alberi frondosi, i tavoli rossi, le case diroccate e i cortili spogli, i paesi e i villaggi della sua amata terra, gli umili oggetti del vivere quotidiano, come le pagnotte, le brocche, i catini, le caraffe, i barattoli, i teli e le tovaglie, tutte presenze povere su cui si proietta una luce drammatica, implacabile, che rivela la scarna essenza della realtà e la sostanza umile degli oggetti che la compongono, come presenze inquietanti e silenziose che agitano la memoria dell'uomo. Le sue opere sono “eventi” di luce in cui il segno, duttile e sensibile, si addensa nella materia buia di un'ombra, si riscatta nel balenio di un riflesso e si dirada, fino a farsi esile e compassato, nel candore spento di una penombra. I contrasti fra luce ed ombra diventano in Zec vera poesia della forma non meno che in Rembrandt; la luce, che si concentra solitamente su di un punto prestabilito della composizione, vive l'intensità di un istante ed attrae l'occhio nella meraviglia di una materia che si rivela in tutta la sua sontuosa concretezza; cosi l'ombra assume lo spessore infinito de! vuoto e la sostanza di una profondità che si fa complementare e funzionale alla luce stessa. In questo suo universo di oggetti e di forme, nella perfetta, direi quasi virtuosistica, applicazione delle tecniche calcografiche, ritroviamo in Zec i tratti di una sapienza grafica e figurativa antica quanto attuale, che sa narrare per immagini ciò che il nostro mondo interiore non puo più esprimere. Ed è cio che Zec ha voluto esprimere replicando il capolavoro di Rembrandt in una versione che ne mantiene intatte tutte le caratteristiche estetiche e poetiche.
La riscrittura della Stampa dei cento fiorini, dicevamo, prende l'avvio con una sequenza di studi preliminari, sistematici e complementari fra loro, in cui si evidenzia la cruda sostanza realista del soggetto rembrandtiano. Come un solista che accorda lo strumento e prova infinite volte le varie parti dello stesso spartito, Zec si appropria dell'immagine-spartito, con cura e perizia estrema ne scompone le varie parti, ne sottolinea le forze dinamiche e compositive; compie un'analisi serrata, meticolosa e approfondita delle componenti formali che ne sostanziano la struttura e il linguaggio. Al suo segno grafico, ora incisivo e penetrante, ora delicato e sottile, affida il compito di evidenziare la diversa qualità della materia sottoposta ad analisi, di metterne in risalto la qualità dei timbri e dei toni, di controllare ogni eccesso, ogni licenza poetica, ogni arbitrio, che allontana l'esecuzione-interpretazione dal testo originale. Questi studi preparatori sono funzionali alla riscrittura del capolavoro e alla sua organizzazione strumentale; studi che servono per assimilare la sostanza dell'impianto compositivo e a determinare la sequenza di procedure operative da applicare nell'elaborazione finale dell'incisione. Zec ha raccolto tutte le indicazioni suggerite dal testo ed ha proceduto a riscriverne i contenuti senza mai rinunciare a quella personale visione del linguaggio grafico che contraddistingue, come cifra indelebile, il carattere del suo stile personale.
Passando dall'analisi del dettaglio figurativo alla ricostituzione dell'insieme compositivo, Zec ha preferito cambiarsi d'abito e smessi i panni del valente ed affermato peintre-graveur, ha indossato, per la prima volta, l'abito più rigoroso e severo del fine interprete solista, del virtuoso esecutore che rilegge lo spartito di una musica altrui, di cui fornisce una magistrale quanto originale e personalissima versione strumentale.

Zec conferisce nuove sonorità, nuovi accenti, nuova misura e bellezza alla sostanza del segno e dello spartito grafico rembrandtiano. Tutta la sua sensibilità poetica, tutto il virtuosismo del suo segno e del suo inimitabile tocco, tutta la sapienza tecnica e strumentale di cui è capace, fanno rivivere armonie che riaccendono i riflettori sul capolavoro rembrandtiano, che rinasce sotto questa luce come testo a noi famigliare e contemporaneo. Per questo e per altri motivi, reinterpretare non vuol dire affatto limitarsi a copiare, anzi va detto che la rilettura e riscrittura di un brano poetico, di un'immagine pittorica o di un testo figurativo è sempre stata e sempre sarà un'operazione intellettuale complessa ed elaborata, necessaria quanto legittima, che richiede, al suo costituirsi, motivazioni profonde, grande intelligenza, sensibilità, umiltà, abilità, conoscenze e competenze specifiche, che si affina- no in anni di pratica e duro lavoro. Non è solo un processo riproduttivo — per quello, sappiamo, basta un'immagine fotografica — ma è una rielaborazione di contenuti in cui emergono le capacità entiche e di controllo dell'interprete che attua l'esecuzione e che sottopone a giudizio gli elementi costitutivi l'oggetto della sua analisi e la sna successiva rappresentazione. La riscrittura comporta la piena coscienza dei propri mezzi espressivi, un possesso completo delle tecniche di rielaborazione e il perfetto controllo dei risultati conseguiti. Il tutto per giungere ad un opera finale alternativa, che non replica affatto il modello originale, ma che, anzi, si costituisce come possibile variante di questo.
Rispettando tali premesse e interpretandone alla perfezione il significato, Zec ha scelto di riscrivere la “Stampa dei cento fiorini”, incidendo le matrici come “versioni” originali di uno stesso testo, in cui non viene meno l'apporto creativo dell'interprete, la sua abilità, la sua sensibilità e intelligenza esecutiva.

 

Utilizza il suo inconfondibile segno grafico come lo strumento del musicista che interpreta un brano di Bach o Beethoven; la maggior o minor qualità del brano interpretato dipende dalla maggior o minor personalità e qualità di chi b interpreta e possiamo dire che non esistono due esecuzioni uguali di uno stesso spartito. Cosi ha inteso Zec rivisitare con personalità il brano di Rembrandt ed è per questo che non rinuncia ad esprimere se stesso anche quando si rapporta con un opera che ha segnato cosi profondamente il suo cammino di artista; restituendo all'immagine replicata i segni e i gesti della proprio linguaggio dando libero sfogo a tutte quelle pulsioni interiori e creative che alimentano da sempre il suo stile inconfondibile, inimitabile. Alla fine i risultati sono cosi diversi rispetto al modello che si era proposto di interpretare, da sembrare questi ultimi un opera a se stante, autonoma e completa.
Sulla stessa lunghezza d'onda Zec si pone il problema di utilizzare un formato differente rispetto al testo originale — ricordiamo che la Stampa dei cento fiorini misura all'impronta del rame mm. 270 X 388 — rimarcando ancora una volta la necessità di non rinunciare ad una propria visione dei fatti e alla autonoma esposizione e interpretazione dei contenuti. L'ingrandimento operato da Zec conferisce alla composizione una maggiore forza incisiva, una superiore penetrazione espressiva, che sottolinea la sostanza e la compostezza di uno spartito figurativo che non perde mai e comunque la sua efficacia. In conclusione, resta viva in chi guarda la sensazione di aver assistito, inavvertitamente, allo svolgimento di un dialogo a distanza fra Zec e Rembrandt, fra passato e presente, fra tradizione e rinnovamento, fra due interpreti e protagonisti dell'arte appartenenti a epoche cos lontane e differenti fra loro che solo l'improbabilità di un immaginario concerto di forme e segni ha potuto ricongiungerne lo spirito, trovando idealmente un punto di incontro in quel limite infinito, quasi intangibile, dove tutto si converte e si ricapitola.

Urbino- luglio 2001

Note

Baldinucci Filippo, “Vita di Reimbrond Vanrein, cioè Rembrante del Reno, pittore e intagliatore in Amsterdam”, in “Cominciamento e progresso dell'arte di intagliare in rame”, Firenze, 1686 ca., terza edizione, Milano, 1808.
2 Non è chiara né convincente l'origine della denominazione basata sul presupposto di una permuta fatta, vivente l'artista, tra l'acquaforte e diverse incisioni di Marcantonio Raimondi, quotate cento fiorini. La carta giapponese era priva di verghelle e filigrana ed era abbastanza spessa e consistente, di colore caldo, fra il bianco e l'ambrato. Il maestro la uso per le prime prove di carattere sperimentale e per gli stati che più gli stavano più a cuore. Dopo l'espulsione dei portoghesi e degli spagnoli dall'impero del sol levante, avvenuta nel 1639, fu permesso solo agli olandesi in soggiorno nell'isola di Deshima, nel porto di Nagasaki, di esportarne un quantitativo limitato e controllato nei documenti della Compagnia olandese delle Indie, oggi riuniti negli archivi dell' Algemeen Rijksarkif dell'Aia, che trattano dei commerci della compagnia in Asia, fu trovata una fattura datata 10 ottobre 1643 che menziona un invio, tramite il veliero De Swaen, di due botti con tremila fogli di carta giapponese, destinati alle indice all'Olanda ed è certo che Rembrandt ne compero un forte quantitativo, forse tutta e praticamente la uso solo lui, poi i suoi allievi e pochi altri dopo di lui.
Tirature che continuarono anche successivamente alla morte del maestro, tanto che il rame era già usurato alla fine del Seicento e quando fu acquistato, nel secolo successivo, dal capitano inglese William Baillie (1723 - 1810), amatore della grafica rembrandtiana, questi raschiò gran parte dei segni logori e reincise la composizione, facendone alcune tirature prima di distruggerla definitivamente. A tali livelli di perfezione “La stampa dei cento fiorini” non è oggi facilmente visibile nelle prove più significative, quelle per intenderci, che gli amatori definiscono “belle e fresche” e solo una visita ai maggiori musei e gabinetti di stampe europei e nordamericani può restituirci integralmente il valore.