Zec - Rembrandt
e la «stampa dei cento fiorini»
Roberto Budassi, in "Safet Zec, Con-divisioni",
published by
l'Abbazia di Rosazzo, 2001.
I. Alcune considerazioni in
merito a un capolavoro...
Anni or sono, mentre rileggevo alcuni passi della biografia
di “Rembrante del Reno” scritta nel 1686 dal fiorentino Filippo Baldinucci
1 , riflettevo sulla «fortuna» critica riservata dalla moderna
storiografia artistica all'opera incisa di Rembrandt e su come alcuni
dei suoi capolavori grafici fossero di diritto entrati a far parte del
ristretto novero di opere immortali della storia dell'arte. Fra queste,
in una posizione di assoluto prestigio, consideravo l'incisione del Gesù che
guarisce i malati cui i contemporanei attribuirono la singolare
quanto efficace definizione di Stampa dei cento fiorini 2 .
Chi ama l'incisione e ne studia l'intrinseca bellezza non può fare
a meno di confrontarsi con Rembrandt e con la versatilità del suo
linguaggio grafico. Al maestro olandese spetta il merito di aver tradotto
in immagini i drammi, le aspirazioni, le speranze, le passioni e le miserie
umane rappresentandole con quella profondità di spinto e quella poesia
che sono proprie solo dei maggiori interpreti dell'arte. Vi sono incisioni
del suo vasto e prolifico repertorio, che testimoniano il valore di un ideale
estetico che si è fatto universale e metastorico, capace cioè di
trascendere i limiti imposti dal tempo e dalle convenzioni comuni, del gusto
e delle mode, per elevarsi a modello di compiuta perfezione espressiva, formale
e tecnica. Non a caso sacrificò parte considerevole della sua lunga
e travagliata esistenza proprio alla ricerca e al conseguimento di tale scopo,
dedicando alla grafica la stessa attenzione, lo stesso impegno, la stessa
passione e serietà morale che poneva nell'esecuzione dei suoi ammirati
capolavori pittorici. Anche in questo Rembrandt è stato un precursore,
il primo, vero, caso di peintre-graveur della storia dell'arte tanto che
la comprensione del suo linguaggio grafico rappresenta un passaggio obbligato,
il punto di arrivo, il vertice oltre il quale non esiste esempio più compiuto
su cui poter affinare le proprie conoscenze ed ampliare la sensibilità in
questo specifico settore dell'arte moderna. E di questo bisogna tenere conto
ogniqualvolta ci avviciniamo a rileggerne i capolavori, per comprenderne
e interpretarne il significato profondo ed è ciò che Safet
Zec, artista fra i più dotati, raffinati e versatili del nostro tempo,
ha saputo fare nel proporre una rivisitazione della Stampa dei cento
fiorini dedicando a quest'opera immortale un importante contributo grafico
che ci consente di rileggerne, sotto una diversa luce — la luce, appunto,
dell'artista - i contenuti formali e poetici.
Dicevamo in apertura che la Stampa dei cento fiorini, è uno
dei capolavori assoluti dell'arte grafica di tutti i tempi ed è bene
aggiungere che è forse l'opera più complessa e significativa
dell'intero corpus grafico Rembrandtiano. La bellezza e il fascino che ancora
oggi questa celeberrima incisione emana, derivano da un insieme di contenuti
estetici, valori formali e risoluzioni tecniche che non hanno mutato nel tempo
il loro significato e il loro impatto emotivo; contenuti e valori su cui vale
la pena di ritornare, brevemente, in queste pagine. L'opera fu incisa da Rembrandt
con tutta probabilità tra il 1642, anno segnato dalla morte dell'amata
moglie Saskia van Uylenburgh, e il 1649 quando, nel pieno della maturità creativa,
il maestro olandese dette inizio alla stagione più intensa della sua
ricerca formale e linguistica. In questo periodo Rembrandt si allontana sempre
più dalle esigenze di convenienza e dal gusto per la finitezza propri
della società borghese del tempo, orientandosi decisamente ad esprimere
e cogliere gli aspetti più intimamente spirituali delle scene e dei
personaggi che rappresentava; a conferma di un distacco dalla frivolezza della
vita mondana e dai costumi dell'epoca ormai consumato nel rigore di una sopraggiunta
maturità artistica ed umana. La disamina delle varie componenti che
caratterizzano i contenuti dell'opera è assai complessa e si presta
ad una lettura a più livelli, il che giustifica la cripticità e
il mistero che tuttora avvolge questo capolavoro. Infatti, pur essendo un'opera
che ha conosciuto una vasta pubblicistica, mantiene un suo riserbo naturale,
una sua dignitosa alterigia che non consente di carpire, oltre un certo limite,
il segreto della sua bellezza e, come accade alla maggior parte dei capolavori,
si finisce per non conoscerla mai abbastanza bene.
Ad iniziare da un'iconografia che non trova precedenti e riscontri nella
tradizione figurativa europea e che si spiega con la volontà del
maestro di inventare un testo figurativo che rispondesse alla necessità di
rappresentare, contemporaneamente, diversi episodi della vita di Cristo
riassumendoli in un'unica immagine, come a voler render meglio esplicita
e comprensibile l'intera dottrina evangelica.
Rileggendo gli Atti di San Matteo, al capitolo 19, troviamo un possibile
collegamento fra l'immagine e la fonte che ne ha ispirato la rappresentazione
cosi come è testimoniato nei passi 1-2; 13-17; 23- 25 del testo: «Gesù...si
parti dalla Galilea e andò nel territorio della Giudea, oltre
il Giordano. Molta gente lo seguiva ed egli guariva i loro ammalati (1-2)...
Allora gli furono presentati dei fanciulli affinché imponesse
loro le mani e pregasse: ma i discepoli sgridavano questa gente. Gesù disse
loro: “Lasciate stare i fanciulli e non impedite loro di venire a me,
poiché proprio di loro è il regno dei cieli” (13 - 14 - 15) ... allora
gli si accostò uno dicendogli: “Maestro buono, cosa devo fare
di buono per avere la vita eterna?”. Gesù gli osserva: “Perché mi
interroghi su ciò che è buono? Solo Iddio è buono.
Se vuoi entrare nella vita eterna, osserva i comandamenti”.(16 - 1
7) ... Gesù continuò: “Se vuoi essere perfetto,
và, vendi ciò che hai e donalo ai poveri e avrai un tesoro
in cielo; poi vieni e seguimi”(21) ... E Gesù disse ai
suoi discepoli “Vi dico in verità che difficilmente un ricco entrerà nel
regno dei cieli. E di bel nuovo vi dico che è più facile
per un cammello passare per la cruna di un ago, che non per un ricco
entrare nel regno dei cieli”. ... Udendo queste cose i discepoli
si sbigottirono... (23 - 24 - 25)». La correlazione
fra il testo sacro e l'immagine è abbastanza evidente. Al centro
della composizione campeggia solenne la figura del Cristo nell'atto di
benedire un fanciullo in braccio alla madre; attorno si accalca la folla
dei fedeli e degli ammalati che attendono il miracolo di una guarigione.
Il giovane ricco è in procinto di rivolgergli la domanda su come
ottenere la vita eterna e già sullo sfondo appare il cammello
della parabola. L'iconografia fa esplicito riferimento alla condanna,
da parte della chiesa protestante, del culto anabattista ed è,
al contempo, un monito contro l'opulenza e b sfarzo della borghesia e
della società del tempo e sulla necessità di raggiungere
la salvezza solo grazie alla fede. Quella che Rembrandt rappresenta è una
umanità derelitta, sbandata e bisognosa di conforto e di verità;
di quella Grazia divina, insomma, che muta l'essenza stessa dell'essere,
facendo di un naufrago un redento che ritrova la via della salvezza e
della speranza dopo il travaglio di un'esistenza vissuta nel peccato.
L'insieme fu ripreso più volte nell'arco dei sette anni, quasi che la
genesi dell'opera contemplasse il sacrificio e il tormento, come il dubbio
lacerante che fa vacillare ogni ragione precostituita; ma il risultato finale è senza
dubbio pienamente riuscito.
L'impianto compositivo è assai prossimo ad esprimere la concertata
coralità d'insieme e la solenne monumentalità presente
nel capolavoro pittorico “La ronda di notte” realizzato nel
1642, a cui quest'incisione sembra rapportarsi anche per l'articolata
distribuzione delle figure su di uno spazio dominato dalla penombra e
dai contrasti di una luce che assume una profondità tragica, ad
un passo dalla visionarietà ascetica e spirituale.
E' una luce che scava un solco profondo nella duttile e spoglia materia
dei senti-menti umani e rivela l'essenza debole dell'uomo e del suo animo,
sempre alla ricerca di una verità che si fa misteriosa quanto
nascosta, perché profondamente vissuta nella scarna realtà quotidiana.
E' una luce che brucia i contorni della forma, potentemente rilevando
le figure dal buio, come a voler dimostrare che la sua essenza è divina
e non fisica; cosi divina da poter avvolgere in un unico abbraccio tutte
le umane creature. Per ottenere gli effetti di contrasto fra bianco e
nero e i vari passaggi dall'ombra alla luce, Rembrandt utilizza tutta
la varietà e versatilità del suo “segno”, che si intensifica
nella profondità del solco scavato dall'acido e dal bulino, che
si ispessisce nella ramificazione degli intrecci, che si esalta nella
delicatezza delle vellutate barbe alla puntasecca e si allarga nelle
trame dei grigi che sfumano fino a distendersi nelle campiture più luminose
dei bianchi. In questo, l'opera rappresenta uno dei primi esempi nella
storia dell'incisione dell'utilizzo di tecniche associate. Rembrandt,
infatti, combina assieme l'acquaforte, la puntasecca e il bulino, sovrapponendole
e sperimentandone l'efficacia dei risultati in varie prove preliminari
prima di giungere allo stato definitivo, a con- ferma di una raggiunta
padronanza operativa e di una congeniale predisposizione del maestro
olandese per il mezzo calcografico.
Già al tempo di Rembrandt l'incisione godette di una notevole consenso
da parte del pubblico e fra le opere incise dal maestro olandese solo poche
conobbero un eguale successo. Lo stesso Rembrandt, del resto, dovette giudicarla
una delle sue grafiche più riuscite e nonostante in quegl'anni seguisse
distrattamente il diminuire delle commissioni per i dipinti — fatto che segnala
la parabola discendente della sua fama presso i contemporanei -- realizzò personalmente
la tiratura di diverse decine di esemplari dei primi stati (il primissimo stato è arrivato
a noi in soli otto esemplari) proprio per soddisfare tali pressanti richieste.
Rembrandt, che in fatto di stampa, poi, era assai esigente, utilizzò per
queste “prove in flore” la carta giapponese; la sola che reputasse idonea ad
esprimere quella proverbiale lucentezza di contrasti e vellutati chiaroscuri
che tanto, ancora oggi, ammiriamo negli esemplari meglio conservati. Purtroppo
le infinite ristampe della matrice, che allievi e mercanti di poco scrupolo
eseguirono nei decenni successivi alla morte del maestro, con l'intento di
trame profitto, hanno offuscato la memoria delle impressioni originali1 che
sono attualmente visibili solo presso j gabinetti di stampe dei maggiori musei
europei e nord americani, cosa che, comunque, non ha scoraggiato l'interesse
da parte della critica e della recente storiografia artistica per questo capolavoro
eccelso della grafica di lutti i tempi. Un capolavoro che in questa veste ha
rappresentato un modello di perfezione grafica e formale tale che ancora oggi
esercita il suo influsso su intere generazioni di artisti e incisori.
II. . . .e altre precisazioni sulla legittimità di
una replica.
C'è una lunga e consolidata tradizione
che testimonia il complesso rapporto che si instaura fra i capolavori
del passato e le copie che di questi fanno gli artisti delle generazioni
successive ed alcuni esempi offrono l'abbrivio per giustificare la legittimità di
un'operazione culturale delicata quanto sottile. I greci replicarono
le opere di Fidia, Prassitele, Lisippo e Apelle, ad uso dei romani. I
romani a loro volta tradussero i greci. I bizantini replicarono se stessi.
L'intagliatore d'Acquisgrana si ingegnava a rielaborare i rilievi tardo
imperiali per dar lustro e dignità alla Cappella Palatina. Cosi
fecero i maestri comacini e transalpini ne1 voler trasmettere l'eleganza
degli decori classici al candore spoglio delle rinate cattedrali romaniche.
Se è vero che ogni opera d'arte vive nella coscienza di ognuno
di noi è altrettanto vero che la trasmissione dei suoi contenuti è stata
spesso affidata a copie o a riscritture più o meno riuscite. Così Michelangelo
si esercitava all'arte del disegno rileggendo le opere di Giotto e Masaccio
e si divertiva a schernire i conternporanei eseguendo copie perfette
dagli antichi; Raffaello non era da meno e si esercitò molto nel
disegno come riscrittura delle opere del passato e del suo presente per
ritrovare, attraverso queste, quell'ideale ispirazione che alimentasse
il suo genio per l'arte.
Così fecero i Carracci nella loro Accademia; cosi occorse al
Bernini, a Rubens, Velazques, Canova, solo per citarne alcuni, fino a
giungere, in questo elenco tracciato per sommi capi, a Matisse e Picasso
che si ritrovarono, il primo, da giovane, a fare copie al Louvre il secondo,
da anziano, a rileggere, nel silenzio della solitudine di un tramonto
ormai prossimo, l'opera dei grandi predecessori, come ultimo, impossibile,
traguardo di una necessaria ricapitolazione. Che dire poi delle incisioni
di traduzione, che non sono copie ma che interpretarono, ugualmente,
dal XVI al XIX secolo, in gran numero, con maggiore o minore fedeltà all'originale,
le opere figurative del passato al solo scopo di divulgarne i contenuti
fra i contemporanei; incisioni che svolsero una loro precisa e riconosciuta
funzione formativa non meno che critica, in un'epoca in cui la riproduzione
fotomeccanica dell'opera d'arte era inimmaginabile ed ancora lontana
dall'essere una realtà. L'elenco potrebbe proseguire all'infinito,
con esempi che nella loro sostanza, specificità e varietà risulterebbero
tutti a loro modo significativi ma che, non essendo questa né la
sede né l'occasione giusta per tentare una ben che minima ricapitolazione
del fenomeno, non ci peritiamo di approfondire. Valga altresì il
fatto che dobbiamo riconoscere, in partenza, alla copia o alla replica,
alla trascrizione o alla traduzione che sia, una funzione necessaria
quanto congeniale al successivo sviluppo dell'atto creativo, autonomo
e originale, come a voler riconoscere, in sostanza, che dal passato c'è sempre
qualcosa da imparare e che ogni rilettura, riscrittura, traduzione, interpretazione
- cd ognuna di queste funzioni merita una specifica distinzione di significato
e contenuto — non è mai stata, non è e non sarà mai,
un'operazione semplice, scontata o fine a se stessa nè, tantomeno,
illegittima e inappropriata, quando esistono motivazioni profonde che
ne giustificano il senso.
Motivazioni che sicuramente non sono venute meno ad un artista dotato
e sensibile come Safet Zec quando ha deciso di dedicare a Rernbrandt
e alla sua Stampa dei cento fiorini una serie di studi approfonditi
ed alcune repliche del testo originale rivissute nell'atmosfera calda
del suo segno grafico. L'omaggio si configura come un doveroso riconoscimento
al genio creativo del maestro olandese; genio che ha segnato il sorgere
e il successivo sviluppo di una vocazione artistica precoce quanto dirompente
che ha portato Zec ad essere l'artista che tutti noi conosciamo e stimiamo;
un omaggio che va inteso come contributo insostituibile alla conoscenza
del capolavoro Rembrandtiano, che cade nel momento favorevole di una
raggiunta maturità espressiva da parte dell'artista bosniaco,
quando cioè si è fatta impellente la necessità di
ricapitolare e chiarire, tramite un dialogo serrato con ciò che è stato,
la sostanza della propria arte e del proprio linguaggio visivo.
La serie, dal titolo Grazie Rembrandt, è composta da due grandi
fogli incisi con le tecniche combinate dell'acquaforte, cera molle e puntasecca,
e da una sequenza di studi preliminari - particolari anatomici e dettagli compositivi
- che sostanziano il valore di un'indagine conoscitiva condotta a tutto campo.
Safet Zec ha dedicato una parte considerevole delle sue energie creative a
perlustrare i meandri espressivi del linguaggio grafico e pittorico, e nessuno
altro meglio di lui sa quali risultati visivi, quale varietà e quale
intensità poetica, di segno e chiaroscuro, si possono ottenere con il
sapiente utilizzo delle tecniche calcografiche e se c'è, oggi, un incisore,
che può permettersi di dialogare a distanza, per virtuosismo e maestria,
con Rembrandt, scendendo sul terreno della sperimentazione e del confronto
questi è, senza ombra di dubbio, l'artista bosniaco. Per chi conosce
la qualità del suo incidere e la profondità di sentimento con
cui esprime il suo universo interiore non può non rilevare - con le
dovute differenze di stile e personalità; è ovvio ! - le affinità con
il grande artista olandese del ‘600. Chi avesse qualche dubbio o perplessità in
proposito, rivela attentamente i balconi fioriti, gli alberi frondosi, i tavoli
rossi, le case diroccate e i cortili spogli, i paesi e i villaggi della sua
amata terra, gli umili oggetti del vivere quotidiano, come le pagnotte, le
brocche, i catini, le caraffe, i barattoli, i teli e le tovaglie, tutte presenze
povere su cui si proietta una luce drammatica, implacabile, che rivela la scarna
essenza della realtà e la sostanza umile degli oggetti che la compongono,
come presenze inquietanti e silenziose che agitano la memoria dell'uomo. Le
sue opere sono “eventi” di luce in cui il segno, duttile e sensibile, si addensa
nella materia buia di un'ombra, si riscatta nel balenio di un riflesso e si
dirada, fino a farsi esile e compassato, nel candore spento di una penombra.
I contrasti fra luce ed ombra diventano in Zec vera poesia della forma non
meno che in Rembrandt; la luce, che si concentra solitamente su di un punto
prestabilito della composizione, vive l'intensità di un istante ed attrae
l'occhio nella meraviglia di una materia che si rivela in tutta la sua sontuosa
concretezza; cosi l'ombra assume lo spessore infinito de! vuoto e la sostanza
di una profondità che si fa complementare e funzionale alla luce stessa.
In questo suo universo di oggetti e di forme, nella perfetta, direi quasi virtuosistica,
applicazione delle tecniche calcografiche, ritroviamo in Zec i tratti di una
sapienza grafica e figurativa antica quanto attuale, che sa narrare per immagini
ciò che il nostro mondo interiore non puo più esprimere. Ed è cio
che Zec ha voluto esprimere replicando il capolavoro di Rembrandt in una versione
che ne mantiene intatte tutte le caratteristiche estetiche e poetiche.
La riscrittura della Stampa dei cento fiorini, dicevamo, prende l'avvio
con una sequenza di studi preliminari, sistematici e complementari fra loro,
in cui si evidenzia la cruda sostanza realista del soggetto rembrandtiano.
Come un solista che accorda lo strumento e prova infinite volte le varie parti
dello stesso spartito, Zec si appropria dell'immagine-spartito, con cura e
perizia estrema ne scompone le varie parti, ne sottolinea le forze dinamiche
e compositive; compie un'analisi serrata, meticolosa e approfondita delle componenti
formali che ne sostanziano la struttura e il linguaggio. Al suo segno grafico,
ora incisivo e penetrante, ora delicato e sottile, affida il compito di evidenziare
la diversa qualità della materia sottoposta ad analisi, di metterne
in risalto la qualità dei timbri e dei toni, di controllare ogni eccesso,
ogni licenza poetica, ogni arbitrio, che allontana l'esecuzione-interpretazione
dal testo originale. Questi studi preparatori sono funzionali alla riscrittura
del capolavoro e alla sua organizzazione strumentale; studi che servono per
assimilare la sostanza dell'impianto compositivo e a determinare la sequenza
di procedure operative da applicare nell'elaborazione finale dell'incisione.
Zec ha raccolto tutte le indicazioni suggerite dal testo ed ha proceduto a
riscriverne i contenuti senza mai rinunciare a quella personale visione del
linguaggio grafico che contraddistingue, come cifra indelebile, il carattere
del suo stile personale.
Passando dall'analisi del dettaglio figurativo alla ricostituzione dell'insieme
compositivo, Zec ha preferito cambiarsi d'abito e smessi i panni del valente
ed affermato peintre-graveur, ha indossato, per la prima volta, l'abito più rigoroso
e severo del fine interprete solista, del virtuoso esecutore che rilegge lo
spartito di una musica altrui, di cui fornisce una magistrale quanto originale
e personalissima versione strumentale.
Zec conferisce nuove sonorità, nuovi accenti, nuova misura e
bellezza alla sostanza del segno e dello spartito grafico rembrandtiano.
Tutta la sua sensibilità poetica, tutto il virtuosismo del suo
segno e del suo inimitabile tocco, tutta la sapienza tecnica e strumentale
di cui è capace, fanno rivivere armonie che riaccendono i riflettori
sul capolavoro rembrandtiano, che rinasce sotto questa luce come testo
a noi famigliare e contemporaneo. Per questo e per altri motivi, reinterpretare
non vuol dire affatto limitarsi a copiare, anzi va detto che la rilettura
e riscrittura di un brano poetico, di un'immagine pittorica o di un testo
figurativo è sempre stata e sempre sarà un'operazione intellettuale
complessa ed elaborata, necessaria quanto legittima, che richiede, al
suo costituirsi, motivazioni profonde, grande intelligenza, sensibilità,
umiltà, abilità, conoscenze e competenze specifiche, che
si affina- no in anni di pratica e duro lavoro. Non è solo un
processo riproduttivo — per quello, sappiamo, basta un'immagine fotografica — ma è una
rielaborazione di contenuti in cui emergono le capacità entiche
e di controllo dell'interprete che attua l'esecuzione e che sottopone
a giudizio gli elementi costitutivi l'oggetto della sua analisi e la
sna successiva rappresentazione. La riscrittura comporta la piena coscienza
dei propri mezzi espressivi, un possesso completo delle tecniche di rielaborazione
e il perfetto controllo dei risultati conseguiti. Il tutto per giungere
ad un opera finale alternativa, che non replica affatto il modello originale,
ma che, anzi, si costituisce come possibile variante di questo.
Rispettando tali premesse e interpretandone alla perfezione il significato,
Zec ha scelto di riscrivere la “Stampa dei cento fiorini”, incidendo
le matrici come “versioni” originali di uno stesso testo, in cui non viene
meno l'apporto creativo dell'interprete, la sua abilità, la sua sensibilità e
intelligenza esecutiva.
Utilizza il suo inconfondibile segno grafico come lo strumento del musicista
che interpreta un brano di Bach o Beethoven; la maggior o minor qualità del
brano interpretato dipende dalla maggior o minor personalità e
qualità di chi b interpreta e possiamo dire che non esistono due
esecuzioni uguali di uno stesso spartito. Cosi ha inteso Zec rivisitare
con personalità il brano di Rembrandt ed è per questo che
non rinuncia ad esprimere se stesso anche quando si rapporta con un opera
che ha segnato cosi profondamente il suo cammino di artista; restituendo
all'immagine replicata i segni e i gesti della proprio linguaggio dando
libero sfogo a tutte quelle pulsioni interiori e creative che alimentano
da sempre il suo stile inconfondibile, inimitabile. Alla fine i risultati
sono cosi diversi rispetto al modello che si era proposto di interpretare,
da sembrare questi ultimi un opera a se stante, autonoma e completa.
Sulla stessa lunghezza d'onda Zec si pone il problema di utilizzare un formato
differente rispetto al testo originale — ricordiamo che la Stampa dei cento fiorini misura
all'impronta del rame mm. 270 X 388 — rimarcando ancora una volta la necessità di
non rinunciare ad una propria visione dei fatti e alla autonoma esposizione
e interpretazione dei contenuti. L'ingrandimento operato da Zec conferisce
alla composizione una maggiore forza incisiva, una superiore penetrazione espressiva,
che sottolinea la sostanza e la compostezza di uno spartito figurativo che
non perde mai e comunque la sua efficacia. In conclusione, resta viva in chi
guarda la sensazione di aver assistito, inavvertitamente, allo svolgimento
di un dialogo a distanza fra Zec e Rembrandt, fra passato e presente, fra tradizione
e rinnovamento, fra due interpreti e protagonisti dell'arte appartenenti a
epoche cos lontane e differenti fra loro che solo l'improbabilità di
un immaginario concerto di forme e segni ha potuto ricongiungerne lo spirito,
trovando idealmente un punto di incontro in quel limite infinito, quasi intangibile,
dove tutto si converte e si ricapitola.
Urbino- luglio 2001
Note
Baldinucci Filippo, “Vita di Reimbrond Vanrein, cioè Rembrante
del Reno, pittore e intagliatore in Amsterdam”, in “Cominciamento e progresso
dell'arte di intagliare in rame”, Firenze, 1686 ca., terza edizione,
Milano, 1808.
2 Non è chiara né convincente l'origine della denominazione basata
sul presupposto di una permuta fatta, vivente l'artista, tra l'acquaforte e
diverse incisioni di Marcantonio Raimondi, quotate cento fiorini. La carta
giapponese era priva di verghelle e filigrana ed era abbastanza spessa e consistente,
di colore caldo, fra il bianco e l'ambrato. Il maestro la uso per le prime
prove di carattere sperimentale e per gli stati che più gli stavano
più a cuore. Dopo l'espulsione dei portoghesi e degli spagnoli dall'impero
del sol levante, avvenuta nel 1639, fu permesso solo agli olandesi in soggiorno
nell'isola di Deshima, nel porto di Nagasaki, di esportarne un quantitativo
limitato e controllato nei documenti della Compagnia olandese delle Indie,
oggi riuniti negli archivi dell' Algemeen Rijksarkif dell'Aia, che trattano
dei commerci della compagnia in Asia, fu trovata una fattura datata 10 ottobre
1643 che menziona un invio, tramite il veliero De Swaen, di due botti con tremila
fogli di carta giapponese, destinati alle indice all'Olanda ed è certo
che Rembrandt ne compero un forte quantitativo, forse tutta e praticamente
la uso solo lui, poi i suoi allievi e pochi altri dopo di lui.
Tirature che continuarono anche successivamente alla morte del maestro, tanto
che il rame era già usurato alla fine del Seicento e quando fu acquistato,
nel secolo successivo, dal capitano inglese William Baillie (1723 - 1810),
amatore della grafica rembrandtiana, questi raschiò gran parte dei segni
logori e reincise la composizione, facendone alcune tirature prima di distruggerla
definitivamente. A tali livelli di perfezione “La stampa dei cento fiorini” non è oggi
facilmente visibile nelle prove più significative, quelle per intenderci,
che gli amatori definiscono “belle e fresche” e solo una visita ai maggiori
musei e gabinetti di stampe europei e nordamericani può restituirci
integralmente il valore.
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