Grazie, Van Rijn

 

Safet Zec in "Safet Zec, Con-divisioni", published by l'Abbazia di Rosazzo, 2001.

Come e perché, e da chissà dove è arrivata nelle mie mani quella piccola riproduzione del lavoro di Rembrandt neanche oggi lo so e neppure ora riesco a spiegarlo. Ero, allora, un quindicenne sbarbato e già mi imbrattavo con i colon, gli olii, le chine, i pastelli ed ero inebriato dall'essenza di trementina. Molto probabilmente in quel tempo non sapevo nemmeno che si trattava di un'opera sua e che lui era il fenomeno più umano e meraviglioso di tutta la storia della pittura. Almeno io la penso così.... Che quella piccola riproduzione rappresentava un'opera disegnata — disegnata con la punta sulla lastra di rame — lo avrei appreso un po' dopo. E non sapevo nemmeno che quel bellissimo vortice di linee, di luci e di ombre rappresentava una scena biblica di “Cristo che guarisce i malati”. Quella volta sapevo pochissimo di queste cose e neanche mi importava di saperne poi cosi tanto. Quello che, invece, sapevo molto bene, era che quell'immagine mi aveva letteralmente “colpito” e che ero rimasto incantato dalla infinita bellezza della scena, dell'evento, tanto che da quel momento desiderai ardentemente imitare quel disegno, ripeterlo, trasportarlo, copiarlo. . .ditelo come volete. Avevo la sensazione — e qui ho sbagliato — di essere davanti alla riproduzione di un'opera di grandi dimensioni; altrimenti come avrebbe potuto contenere tutti quei gruppi di persone, di animali e oggetti in tutto quello spazio che a me sembrava infinito e meraviglioso? E poi, il buio, pieno di pathos, e la luce che sorge non si sa da dove ed arriva...
Mi ricordo ancora mollo bene, il grande foglio di carta di colore giallino, di vari metri di dimensione, che fissai obliquamente sul muro con i chiodini, nel corridoio della nostra casa di famiglia in via Hrgiça 28, a Sarajevo; e ricordo, ancora, un pezzo grosso di creon nero al quale cercai di fare varie volte la punta più sottile e come, per tutto il tempo, continuai nervosamente, ma con grande entusiasmo ed inesperienza, a disegnare. Pensavo che il muro non liscio, pieno di crepe e grumi, mi avrebbe disturbato. Le mie mani sporche avevano molta fretta e il creon si frantumava, andava in briciole. Alla fine, il mio disegno non assomiglio per niente a quella meravigliosa, perfetta e virtuosa incisione in rame; a quel raro esempio manuale dell'arte umana.
Quello che avevo fatto era, invece, grossolano e semplice, con linee spesse, tutte uguali, non collegate. Non riuscivo neanche ad arrivare fino ai volti, fino alla fisionomia, fino agli innumerevoli movimenti, ai gesti delle mani. La materia, la luce, la profondità, le ombre ed il buio, tutto questo mancava. Come potevo non sentirmi, se non deluso, triste per ciò che nasceva sulla carta, sotto le mie mani? Non esiste esempio più eccelso, più grande opera d'arte... e nemmeno giovane più impreparato.
Mi sarebbero capitate ancora tante altre sconfitte, specialmente durante gli anni dell'apprendimento, dell'esercizio e dello studio. La mia mano ha sperimentato tutto quello che doveva provare, fino a quando non ha smesso di tremare e cosi l'oggetto che avevo in mente ha avuto finalmente il suo giusto volume, la luce, la morbidezza oppure la durezza, la chiarezza, l'espressione.
Quell'amara esperienza mi ha segnato profondamente perché era, forse, la prima; la prima cosi fortemente sentita per le mie mani e la mia anima inesperta. E' stata, sicuramente, anche l'ultima volta in cui l'esito finale risultò cosi distante dal modello. Con sforzo eccezionale ed anche con caparbietà, miglioravo velocemente e cosi diminuivo la scoraggiante differenza iniziale. Nel tempo che segni, quando il grande olandese era ormai diventato il mio interlocutore fisso, spesso mi capitò, guardando le numerose monografie a lui dedicate, che lo sguardo si fermasse ancora una volta su quella bellissima incisione in rame, ricordandomi sempre del tentativo giovanile fallito a Sarajevo. Gli incontri con lui mi hanno sempre trasmesso un'inquietudine interiore, diventando, forse, una forma di ammonimento per il mio, quasi certamente unico, esame artistico non superato.
Veramente poche altre volte - o quasi mai - nel corso del mio apprendimento nel campo dell'arte, ho rimandato quella che pensavo fosse una lezione importante per verificare le mie abilità nell'apprendere una tecnica o un procedimento; e ciò ha assunto importanza soprattutto per il fatto che ho voluto sempre misurare le mie capacità e le conoscenze acquisite, per provare a fare qualcosa di uguale o di simile, a quello che vedevo ed ammiravo dei “miei” grandi maestri del passato. Solo il lavoro assiduo, la ripetizione costante, che assomiglia molto allo studio della musica - oggi cosi difficile da spiegare - mi consentono di avere quel bagaglio di esperienze, utili e insostituibili, che mi hanno portato a...

E così, quel mio tentativo giovanile di Sarajevo è diventato per me una specie di promessa, e decisi, allora, di ritornare a quel capolavoro di Rembrandt solo quando sarei stato più preparato, più maturo; quando la mia mano sarebbe stata, finalmente, in grado di disegnare senza alcun tremore, di ricamare con la punta sulla matrice di rame quella scena divina, che c'è stata lasciata in consegna da Rembrandt. Era naturale che avrei dovuto saldare, prima o poi, i conti con il Safet di quel tempo, che aveva avuto desideri e voglie più grandi della sua ragione e delle sue capacità.

Cosa darei per tenere in mano quel tentativo giovanile, per poterlo vedere solo un attimo! Come mi sembrerebbe oggi? E' chiaro che è finito nel dimenticatoio, buttato via come tanti miei lavori di allora e dei tempi successivi..., eseguiti ed anche giudicati come prove, come esercizi, come allenamento quotidiano sulla via che porta a..., senza valore, per metterli da parte, conservarli. E cosi mi rimangono i ricordi di quel tentativo, ricordi che sbiadiscono sempre più con il passare del tempo, di giorno in giorno; mentre un po' più chiare sono rimaste nella memoria le circostanze e l'ambiente che b determinarono. Lui, invece, “lo schizzo, il disegno”, da solo, svanisce sempre di più.
Sulla mia strada di artista ho inevitabilmente sfogliato molte monografie ed i miei occhi hanno vagato sui tanti, bellissimi, perfetti, grandi capolavori artistici che sono stati realizzati nella lunga storia di quel “bisogno” umano, che spinge l'uomo a prendere in mano il carboncino, la china, il colore e tutti quei mezzi che ha a disposizione e con i quali ha pensato, espresso e comunicato, la sua idea, il suo progetto artistico. Questi capolavori mi hanno entusiasmato e, copiandoli, ho imparato la lezione dei grandi maestri. Ma, all'inizio, è stata proprio quell'incisione in rame - cosi come, in seguito, tutta l'opera di quell'eccelso e universale olandese - che si è impressa nell'anima avvolgendola come il balsamo avvolge la ferita, ad essere letteralmente il movente, la luce fissa su cui indirizzare questo lungo e complicato viaggio spirituale nell'arte, pieno di sconfitte, di dubbi e di sempre nuove speranze, soddisfazioni e, infime, vittorie.
L'incontro con quella piccola - ma allora per me grandissima - meraviglia disegnata è stato uno dei primi bagliori della bellezza tessuta dalla mano di un uomo; è stato per me uno di quei momenti magici, fatali, che mi hanno spinto con forza e, definitivamente, nel vortice del quadro e della pittura; ma è stato anche un fatto ancor più felice o dannoso: questo incontro ha definito tutta la mia filosofia e comprensione dell'arte, e il mio cammino con ed attraverso l'arte. E' diventata la misura ed il metro per tutte le mie concezioni dell'arte figurativa; lo sguardo ed il pensiero andranno cosi sempre a Lui.

Quella volta mi colpi molto poco o niente la storia biblica, Fevento e la sua iconografia, il carattere ed il ruolo di Cristo, i personaggi che sono rappresentati sul disegno e cosa stanno facendo in quel luogo. E' anche vero che di tutto questo sapevo ben poco. La malattia ed il dolore, il bisogno di speranza della gente, dell'umanità salvata dalla sofferenza, tutto questo sarebbe venuto dopo — forse è meglio dire che si sarebbe completato in seguito — con il continuo guardare ed ammirare, con gli anni, con la conoscenza che allora non potevo ancora avere. Senza tutte queste cose, la lettura avvincente di tale capolavoro della grafica rimarrebbe parziale cosi come diminuirebbe la sua intensità artistica.
E' stata la bellezza e la maestria del lavoro fatto a mano a gettarmi nella dolce demenza dell'ammirazione! Il fatto fenomenale di come, mettendo linea su linea, tante linee, una sopra l'altra, si può creare un'immagine, un avvenimento, un sogno. Solo entrando, per cosi dire, nella maestria che ti permette di fare immagini, ho provato il perfetto e divino “tessere” del grande Van Rijn; tutta la ricchezza delle mille linee, da quelle più forti, grosse, a quelle più lievi, appena visibili, da quelle sinuose alle altre, brevi, che formano il viso della vecchia, alle altre ancora che definiscono il corpicino del bambino, fino a quelle parti del disegno dove le linee non ci sono proprio più, fino all'oscurità, al buio strapieno di linee; tra di loro ci sono quelle che danno la morbidezza al tessuto, altre che donano lo splendore vellutato al capello o fanno luccicare il coltello, quelle che rendono il muro solido e altre il cuscino morbido... E dopo è arrivata la consapevolezza di quanta forza e quanta potenza stanno in una mano che tiene la matita, la punta, la maestria innaturale e non comune, rara, e tutto questo su una lastra di rame che ha le dimensioni di un libro, un po' più grande. Pensavo che queste capacità fossero dovute a forze soprannaturali e che si trattasse di capacità possedute solo da uomini rari, scelti e consacrati.
Questo mi ha buttato a terra — come si dice - e mi ha turbato in modo febbrile, tanto da spingermi a provare a specchiarmi e misurarmi. Ho scoperto molto presto che avrei potuto, finalmente, raggiungere — o almeno avvicinare - il mio modello artistico e “padre” Rernbrandt Van Rijn solo con l'infinito esercizio e le ripetizioni.

In tutti questi anni che ho vissuto in Italia, mi sono — ed è comprensibile — di nuovo avvicinato a Van Rijn con tutto il corpo e la ragione. Aprivo le sue monografie, le sfogliavo e le guardavo più spesso del solito. Era come una specie di confessione. Solo Lui riusciva a calmare le mie inquietudini e le paure, a dare le risposte alle mie domande più difficili. Solo Lui mi ha ridato il senso e la fede nella pittura, nei momenti difficili e vuoti, e chissà per quante altre volte b farà ancora. E cosi, ora, saranno finalmente realizzate le mie versioni della Sua “Stampa dei cento fiorini” e, con esse, la mia vecchia promessa. Finalmente ci sono tutte le condizioni, e non sono poche, perché si possa realizzare qualcosa di simile. Cosi ora potrà cominciare a disegnare dal basso verso l'alto e da sinistra verso destra, tutta quella storia; la scena — prima con la matita, dopo con la punta...

Toccare e dare vita ad ognuna di quelle mani, accarezzare ognuno di quei visi. . .Intraprendere il viaggio compiuto solo da pochi privilegiati e sentire la soddisfazione fisica della crescita e del “riempirsi” di questa grande lastra. Nel tempo relativamente lungo, da quando faccio questo mestiere, ho realizzato innumerevoli lavori su tutte le tematiche e con tutti i materiali, di tutte le dimensioni; ma ora direi una bugia se non ammettessi di aver provato una strana soddisfazione fisica, una tale felicità come mi sembra di non aver mai finora provato, quando quel giorno di febbraio, nella stamperia d'arte di Albicocco a Udine, ho sollevato la prima stampa della prima ceramolle dedicata a quest'opera insigne di Rembrandt.

Grazie, Van Rijn!